14 gennaio 2022

Il troppo stroppia?

Il caso della critica del New Yorker all’abuso del trauma nella narrativa

Il troppo stroppia? Da qualche giorno è argomento di discussione anche in Italia un tema sollevato dal The New Yorker in un articolo di Parul Sehgal: l’abuso di un tòpos letterario, quello del trauma.

Secondo Sehgal servirsi smodatamente di questa tematica, senza il supporto di una trama realmente interessante e originale, rischia di condurre al cliché.

Quello del trauma non è un concetto nuovo: come società siamo solo diventati più bravi a individuarlo, più attenti alla sofferenza umana in ogni sua sfaccettatura. Siamo riusciti a individuare il PTSD, il disturbo da stress post traumatico, e a renderci conto che poteva affliggere gli esseri umani in una moltitudine di contesti e situazioni.

"Se i greci inventarono la tragedia, i romani l'epistola e il rinascimento il sonetto", scrisse Elie Wiesel, saggista e filosofo, "la nostra generazione ha inventato una nuova letteratura, quella della testimonianza". Secondo Parul Sehgal, “l’incarnazione della testimonianza in tutte le sue forme - in memorie, poesie confessionali, narrazioni di sopravvissuti, talk show - ha elevato il trauma da segno di difetto morale a fonte di autorità morale, persino una sorta di competenza”.

Perché si è arrivati a parlare di cliché? Secondo la critica, è una questione di appiattimento. Negli ultimi due decenni è emersa una moltitudine di scritti sull'argomento, con approcci molto diversi tra loro; alcuni di questi hanno trattato il trauma come se fosse una caratteristica senza tempo dell’essere umano, ignorando - secondo Sehgal - come in realtà si sia evoluto nei secoli, anche nel modo di parlarne e raccontarlo. Secondo questo approccio, il trauma rischia di avere la meglio sulle identità che affligge, ricostruendo ogni personalità a propria immagine, schematizzando e omologando.

È anche vero, però, che in mani abili una trama a base di trauma è da intendersi solo come un inizio, con una via di mezzo e una fine da cercare altrove. Con il giusto approccio, si esce dalla definizione terapeutica per entrare in un registro sociale, politico, generazionale.

La trama del trauma appiattisce, distorce, riduce il carattere a sintomo e, a sua volta, istruisce e insiste sulla sua autorità morale” spiega infine Sehgal. “Il conforto della sua semplicità ha un prezzo. Ignora ciò che sappiamo e chiede anche a noi di dimenticarlo”.